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Caro Beppe Sala, il lavoro è ovunque. Non solo a Milano.

La ripartenza può essere tale solo se si comincia a pensare ad un Paese di 20 regioni.

Il sindaco Sala è in difficoltà.

La sua città rischia di collassare per colpa dell’innovazione, quella stessa innovazione di cui da tanti anni la città si fa portabandiera ed ora che finalmente se ne vedono concretamente i primi timidi accenni almeno all’interno dei sistemi organizzativi, ecco il colpo di freni, netto e imperioso.

Il sindaco che fin dal primo giorno del suo mandato ha sempre e solo cavalcato una comunicazione mai incline al pessimismo e positiva fino all’eccesso non ha avuto alcun problema nel prendere finalmente una posizione critica. Facile quando l’obiettivo non è uno sponsor, un investitore, un’istituzione e soprattutto quando il valore e il successo (sebbene in fase molto embrionale) non sia stato guidato e regolato da chi ormai da sempre si vuole posizionare – a torto o ragione – come apripista in qualsiasi settore economico finanziario.

Eppure proprio a Milano da qualche anno si celebra la settimana del lavoro agile e la dichiarazione di Sala rischia di far sembrare anche questa l’ennesima operazione di marketing per auto celebrarsi città progressista.

Una serie interminabile di cadute di stile

È bastato dover ricorrere davvero al lavoro agile che industriali da una parte e sindaco dall’altra, alla prima occasione utile hanno soffiato sul castello di carte rivelando l’ennesimo tentativo perfettamente riuscito di una comunicazione solo di facciata.

Come se non fossero state sufficienti le gesta compiute in questi tre mesi dal Don Chisciotte Fontana e dal suo fido scudiero Sancho Panza Gallera a minare la millantata qualità della vita lombarda, adesso anche il sindaco Sala riprende il filo delle cadute di stile momentaneamente e saggiamente sospese dopo il lancio di #MilanoNonSiFerma e la chiamata alle armi sui Navigli a favore di aperitivi. Lo fa con un video brandizzato Corriere della Sera in cui infila una serie di gaffe che comprendono anche i suoi stessi dipendenti quando afferma che in molti ci sia stata la tentazione di non fare nulla pur prendendo lo stipendio.

Nel tentativo di fare cerchio per l’ennesima volta intorno alla sua città (tuttavia anche le marchette più improbabili necessitano di onestà intellettuale di fronte all’evidenza), teletrasporta automaticamente tutto il Paese nel pleistocene lavorativo e culturale in cui eravamo tre mesi fa da cui questa emergenza, al netto delle disgrazie, ci ha tirato fuori aprendoci gli occhi su modelli organizzativi, qualità della vita e attenzione all’ambiente di cui Milano certamente non era il modello di riferimento che in tanti si sforzavano di credere e di farcene convincere al punto tale da convogliare qui eventi, spostamenti di sedi aziendali e soprattutto investimenti a pioggia. La coperta è corta: se porti tutto verso la testa, i piedi restano fuori.

Non possiamo adesso dimenticarci di tutto quello che durante il lockdown abbiamo scritto, dichiarato, professato in webinar e meeting on line: un altro mondo (lavorativo) è possibile. Ci siamo resi conto che quello che per anni abbiamo chiamato smart working era solo una brutta copia pensata male e gestita peggio, abbiamo finalmente ricominciato a parlare seriamente di cultura del lavoro e, soprattutto, dato a questo un valore diverso in tutte le sue manifestazioni di palese inutilità: trasferte, riunioni, viaggi di lavoro che fino a ieri sembravano imprescindibili e inderogabili.

Questo non può che essere il punto di partenza per ripensare entrambi i modelli, rendendoli perfettamente integrati attraverso una nuova cultura del lavoro più sostenibile che immagini spazi diversi e comprenda finalmente anche chi deve conciliare la vita professionale con quella familiare. E finalmente anche il gap di genere potrebbe trovare la sua soluzione, risolvendo tante chiacchiere sulla diversity che servono solo a riempire i panel dei convegni.

Come scrive Elisabetta Ambrosi sul Fatto Quotidiano in un articolo che rivela una straordinaria visione a lungo termine:

[…] In altre parole, il problema non è lo smartworking ma come lo si fa e questo è persino banale dirlo. Ma quello che stupisce è che abbondino nel nostro paese dichiarazioni da parte di professori o istituzioni che parlando del tema dimentichino il beneficio ambientale. Questo non può esistere, non è tollerabile. Lo smartworking rappresenta una flebile speranza in un quadro a tinte fosche.

Una speranza non solo di una diminuzione delle emissioni, ma anche di maggiore felicità per i lavoratori, che potrebbero avere città sostenibili ma soprattutto – da non sottovalutare – la possibilità di spostarsi, magari in aree rurali abbandonate da anni. In questa pandemia tutti abbiamo avuto modo di capire quanto la natura sia fondamentale. Molti vorrebbero andare via dalle città, vivere in campagna, non a caso crescono le quotazioni di case fuori città e calano le altre. 

In effetti il modello Sala rischia di diventare obsoleto se la coscienza delle Persone prende il sopravvento su economia e finanza. E a soccorrerlo (e a rendere la caduta rovinosa), il giuslavorista Pietro Ichino, impavido giustiziere della Pubblica Amministrazione e del lavoro troppo moderno, entrambi spavaldi influencer della strafottenza ambientale e della sostenibilità a breve termine, fin quando non intacca consulenze ben pagate e il culto dell’ama il tuo business come te stesso.

Dove sono finite le borraccette di alluminio con cui il sindaco si faceva fotografare?

Per chi se lo fosse perso, Sala ha dichiarato “basta smartworking, torniamo a lavorare, perché l’effetto grotta in cui stiamo a casa e prendiamo lo stipendio ha i suoi pericoli”. Può sembrare una battuta, non lo è: è la dimostrazione di una scarsa consapevolezza di cosa sia davvero il lavoro agile. Non un pallido sostituto del lavoro “vero”, ma lavoro vero e proprio, semplicemente secondo altre modalità. Un modello che in Europa ormai è ampiamente sviluppato. E la “città che ama definirsi la più europea d’Italia” dovrebbe saperlo.

Eppure, neanche pochi mesi fa fu proprio lui a prestare la sua immagine ad una campagna ambientale sponsorizzata da una multiutility cittadina, facendosi fotografare con i bambini a maneggiare borraccette di alluminio a favore di telecamere.

Ma con questa dichiarazione, il super eroe ha rivelato la sua identità segreta (quella vera), dimostrando di essere un dinosauro, altro che sindaco green.

Capisco che far muovere decine di migliaia di persone ogni giorno generi un indotto sul quale Milano da sempre prospera sia in termini economici che di immagine, ma i tempi cambiano per tutti e il sig. Sala dovrà iniziare a immaginare anche lui di gestire una città come fanno tutti i suoi colleghi sindaci in quelle città dove i finanziamenti, bandi e donazioni non arrivano automaticamente solo perché hai un brand costruito ad arte.

É prevedibile che lo scenario futuro di una città che ha fondato tutta la sua attrattività sul lavoro, quando questo inizia a mancare, rischia di non avere un piano B.

“Bello lo smartworking ma è arrivato il momento di tornare a lavorare” è la frase perfetta del Milanese Imbruttito che rappresenta se stesso senza che Germano Lanzoni provi a stemperarne i toni trasformando, anche qui, il peggio in un format vincente. È la resa definitiva di un sistema che ancora una volta si traveste “smart” senza crederci davvero, ma alla prova del nove il travestimento si scuce e rivela quello che tutti abbiamo temuto accadesse: l’emersione di un’anima provinciale che ne ha le palle piene di tutto questo cambiamento e vuole tornare a fare “tutto come prima”.

E che questo partisse proprio dal cuore di Milano non ce lo saremmo mai aspettato.

Il lavoro è ovunque, caro Sindaco Sala. Non è solo a Milano.

Con la differenza che gli stipendi nelle città più industrializzate non sono poi così diversi da Milano, mentre ben differente è il costo (e la qualità) della vita. Lo dico con cognizione di causa, perché faccio un mestiere per il quale vedo 1000 buste paga all’anno. I profili ben specializzati, proprio perché meno presenti in alcune aree del nostro Paese (e non parlo del Sud) vengono pagati anche molto meglio che in Lombardia.

Le partite IVA soffrono in qualsiasi regione d’Italia, con la differenza che a Milano ce n’è una concentrazione impressionante per cui le opportunità sono decisamente inferiori che nel resto d’Italia. Anche se per i freelance non è mai facile.

Altro discorso naturalmente per Direttori Generali e Amministratori Delegati che in questa città risiedono nelle grandi Corporate – Vetrina per i quali gli stipendi hanno valori totalmente fuori squadra rispetto ad altre regioni d’Italia. Altro problema devastante poiché queste figure sono particolarmente sensibili a cambi di proprietà, CdA e risultati. Quando queste figure perdono la poltrona, sono talmente fuori mercato che soffrono più delle altre la loro ricollocazione.

Per non parlare di tutti i Pugliesi, Siciliani, Calabresi e Napoletani che arricchiscono Milano di lavoratori appassionati e qualificati, che se potessero lavorare 20 giorni al mese dalle loro regioni di appartenenza con lo stipendio milanese, farebbero una vita da nababbi anziché sopravvivere nelle periferie (dove i più giovani oltretutto non smettono neanche a 30 anni di vivere “da studenti”) e farebbero risparmiare all’azienda un sacco di quattrini: meno uffici e meno consumi significano maggiori investimenti in ricerca e sviluppo.

Su questo numero di SenzaFiltro ne parliamo ampiamente poiché in molti si sono accorti di condurre una vita che è solo sopravvivenza, di presidiare un modello lavorativo che è solo stress e competizione, in molti si sono accorti che l’ambiente e la qualità della vita non sono una pausa pranzo di 40 minuti nel bar sotto l’ufficio al costo di 12 euro per un’insalata in busta e un pomodoro di cartone, relazioni di convenienza e città dormitorio.

L’economia che Sala invita a sostenere con attività non più sostenibili è la stessa di tutte le altre città d’Italia. Bar, ristoranti, negozi, spazi pubblici che avrebbero ben altri risultati se i Bolognesi, i Napoletani, i Padovani, i Fiorentini, i Baresi, i Siciliani consumassero quotidianamente nelle loro città. Ci sarebbero più persone anche nei teatri, nei musei, alle presentazioni dei libri. Quelle persone che prendendo il treno delle 17.00 da Milano relegano al solo weekend tutte le attività con la propria famiglia costretti ad imbutare gli affetti e la vita intera in 48 ore settimanali.

Sta cambiando la geografia del lavoro

Alcune Università del Centro-Sud hanno iniziato delle vere e proprie campagne di attrazione e trattenimento dei propri studenti, così come per tanti, questi tre mesi hanno significato un vero e proprio cambio di abitudini e di coscienza. In molti, potendo lavorare in smart working, sono tornati al loro paese d’origine e qualcuno non tornerà indietro.

Come testimonia il progetto lanciato da un gruppo di 30enni coadiuvati da due ricercatrici universitarie siciliane dell’Università di Lussemburgo che dopo una laurea alla Bocconi e una serie di esperienze in giro per il mondo hanno deciso di lanciare il progetto “South Working – lavorare dal Sud”. Un progetto che rischia di diventare un trend importante da parte di tutti quei giovani – sempre di più – che non hanno il mito della grande città e che credono che le intelligenze debbano muovere un Paese intero e non solo muoversi in un’unica direzione per il privilegio di pochi.

Trasferirsi a Milano e da Milano: lo spauracchio che giustifica licenziamenti coatti e blocca la crescita professionale

Se da una parte c’è un Sud Italia saccheggiato da piccole e grandi risorse che diventa automaticamente il motivo di scarsi investimenti e dunque di infrastrutture spesso inadeguate e poche opportunità, dall’altra parte c’è un Centro Italia dove i servizi e la qualità della vita sono spesso molto alti, che non ne vuole sapere di trasferirsi “verso Nord”. Capita così che “il trasferimento a Milano” più che un’attrazione sia il vero e proprio spauracchio con cui le aziende mascherano licenziamenti coatti, proponendo ai propri collaboratori trasferimenti a parità di stipendio, sapendo che chi abita a Bologna o Firenze mai accetterà una delocalizzazione che significa perdita di qualità della vita e servizi a misura d’uomo a favore di sovraffollamento, scarsa convenienza economica, allontanamento dalle famiglie. Come sta succedendo in questi giorni con la vergognosa situazione di Cavalli. Ma che è stato il motivo di campagne a perdere anche per Nike da Bologna o Poltrona Frau da Tolentino.

Di contro, ricevo costantemente cv di quadri e dirigenti residenti a Milano, ormai senza lavoro da oltre 3 anni che non accettano di trasferirsi in cambio di opportunità anche molto interessanti. “Se vado via da Milano poi perdo tutto” mi è stato detto da un candidato qualche tempo fa. La retorica dell’ “unica città europea” ha fatto molti più danni di quelli evidenti.

In questi giorni, il Camper di SenzaFiltro si è fermato a Bari. Nell’intervista con il Presidente della Regione Michele Emiliano, abbiamo parlato di turismo per il reportage che manderemo online il 15 luglio. Ho chiesto a lui che scenari si prospettano dopo l’emergenza Covid proprio in relazione ai flussi di lavoratori che lasciano la Puglia per cercare opportunità a Milano.

Il lavoro è ovunque, caro Sindaco Sala. Si dia una mossa ed esca dalla grotta.

Il lavoro è ovunque è anche una delle tesi del Manifesto per una Nuova Cultura del Lavoro di FiordiRisorse. Se vuoi, sottoscrivilo.

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