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Cambierebbe il suo vecchio fustino con questo?

Chi mai avrebbe immaginato di ritrovarsi in un tempo in cui per settimane intere avremmo potuto lavorare da casa, lasciare la macchina in garage, dimenticare la follia di inquinamento, di riunioni senza senso, di prenotazioni ferroviarie A/R in giornata, di dribbling fra una fiera e l’altra, il formicaio impazzito di gente che esce tutta alla stessa ora e alla stessa ora rientra?

In una sorta di forzata “prova – prodotto” che ricorda una pubblicità in cui si proponeva di scambiare il vecchio fustino con un nuovo detersivo super performante (analogia suggerita con geniale illuminazione Simone Perotti, sostenitore già 10 anni fa di quel down-shifting a cui in tanti anelano, ma che pochissimi hanno avuto il coraggio di scegliere concretamente) ci è stata data la possibilità di sperimentare un’alternativa al nostro modo di vivere precedente.

Nella sorpresa di un cambio che non avremmo mai sperimentato volontariamente si installano però, irritanti, tutta un’altra serie di iniziative che hanno lo sgradevole sapore delle “tentate vendite” senza anima e che fanno trasbordare le nostre caselle di posta. Nonostante l’inevitabile calo di attività e, conseguentemente, di risposte da dare a clienti, partner, fornitori, soci, lettori, ammiratori, denigratori, nel momento in cui tutto è sospeso e le relazioni si sono infeltrite, le mail aumentano!

In mancanza di vero business i “prodotti” più pubblicizzati sono diventati inviti a webinar mediamente inutili e su temi non richiesti, testimonianze di vicinanza da parte di piattaforme e consulenti (tre righe di scambio di “amorosi sensi” per poi appiopparti un servizio in prova gratuita), dirette Facebook di una noia mortale costruite ad arte per mettere in vetrina un cliente e dimostrare così di “essere sempre sul pezzo”. Inutile tirare le somme dell’efficacia di queste operazioni.


Questi goffi tentativi di “vendita” hanno svelato la vera faccia di modelli e organizzazioni che si sono rivelate meno eccellenti e virtuose di quanto non volessero far credere.


La pubblicità è visibilmente al collasso creativo. Basta dare un’occhiata in rete per rendersi conto di quanto tutti gli spot commerciali delle ultime settimane siano uguali a se stessi, con le stesse parole, gli stessi incipit, le stesse immagini, gli stessi hashtag, lo stesso nulla.

Photo by Juan Marin on Unsplash

In questo provino di vita parallela scade anche la retorica dell’innovazione che almeno negli ultimi 5 anni ha tenuto banco in seminari e convention: Startup, Industria 4.0 e Digital Transformation sono i grandi sconfitti se è vero che mai come adesso avremmo potuto impiegare robot fra le corsie di ospedale per risolvere situazioni di routine con pazienti per lo più sedati ma estremamente contagiosi. Aziende e scuole si sono trovate spiazzate di fronte alla necessità di gestire tecnicamente collaboratori e scolari da casa per mancanza di computer (le seconde), di preparazione e formazione (entrambe) di piattaforme adatte allo scopo (le prime).

Incredibile pensare che ci siano migliaia di startup concentrate sull’Internet of Things – che si risolve in poco più che parlare con un oggetto fallico che mette su musica, ti conferma quello che già sai guardando dalla finestra o fa salire e scendere autonomamente le tapparelle rendendoci automaticamente dei focomelici in progress – e nessuna avesse pensato ad una cosa semplice quanto necessaria come una replica digitale di un’aula scolastica. Allarmante che nessun piano scolastico prevedesse una formazione minima sull’utilizzo del computer per i maestri di elementari e medie che hanno dimostrato tutta la loro fragilità anche di fronte ad una banale mail.

Il mondo dei coworking alla moda da anni bercia contro i piani universitari poco adeguati a preparare i giovani ai mestieri del futuro. Adesso che il futuro è arrivato non solo questi mestieri “del futuro” non si sono nemmeno affacciati alla porta (Data Analyst, Big Data Scientist e altre forme di vita sconosciute), ma non si sono viste all’orizzonte nemmeno tutte quelle aziende che nei grandi simposi internazionali promuovevano la loro strabiliante capacità nell’uso di dati di cui oggi avremmo avuto fortemente bisogno per tracciare movimenti, contatti e abitudini.

Mentre invece, sono tornati tragicamente di moda mestieri 1.0. A cominciare da medici e infermieri, categorie sottopagate a cui la follia del numero chiuso nelle università ha restituito una popolazione insufficiente a gestire emergenze come queste. Per non parlare di dove finiscono i nostri ricercatori e dei tagli alla sanità effettuati negli ultimi anni, mentre si regalavano investimenti a fondo perduto per progetti più cool.

E poi gli spazzini, gli operatori delle società di pulizia e sanificazione, i lavoratori dei supermarket…
Lasciamo perdere.

“Questa è la crisi più dura dal secondo dopoguerra” ha dichiarato il Premier Conte alle 23,30 di sabato 21 marzo e nessuno di noi ha dubbi che sarà così e l’ottimismo squinternato dei #nonsiferma o dei balconi canterini non sarà sufficiente ad alleggerire la salita. Suggerirei anche di evitare la solfa dell’ideogramma cinese crisi/opportunità perché è un fraintendimento linguistico più volte già smentito e utile solo a qualche formatore bollito dai luoghi comuni ripetuti ad libitum e tramandati di consulente in consulente.


Di certo questa è una crisi che, più delle precedenti, ci obbligherà a rivalutare le nostre priorità e stili di vita.


In questi giorni di stravolgimento delle abitudini, sono tornati i delfini nei porti di Ancona e Trieste, le anatre selvatiche nelle fontane di Roma, i cerbiatti nei paesi di periferia dell’Appennino. A Milano, Torino e Bologna si respira aria di montagna. Un mio amico mi ha detto “erano anni che nel condominio non sentivo l’odore della pasta al forno”.

Alla fine di questo periodo sapremo se saremo diventati migliori, capaci di offrire questa volta volontariamente i nostri porti più a quei delfini che alle mastodontiche navi “sputapetrolio” pronte ad inquinarci l’esistenza.

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