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Confindustria: un virus incapace di cambiare.

Esiste un livello di civiltà che è nel piano ammezzato fra chi governa e fa le regole e i singoli individui che sono tenuti a rispettarle. Questo è il livello delle imprese e di chi le amministra, che a sua volta “dispone” di Persone legate a questi amministratori dal filo dello stipendio, tanto sottile nella sua struttura quanto subdolo per il senso di dipendenza vitale che genera.

Se guidati in maniera responsabile, autorevole e coinvolgente, quei fili iniziano a rivestirsi di una forza nervina che rende la struttura impermeabile a qualsiasi crisi che si chiama senso di appartenenza e che lega gli Uomini fra di loro. Se invece quei fili vengono condotti in maniera spregiudicata, torneremo indietro di 40 anni a parlare di Padroni e Maestranze, rendendo inutili anni di conquiste sociali, civili ed umane e, di conseguenza, tutta la narrazione legata all’Industria 4.0 e all’innovazione.

L’incapacità endemica di cambiare

Ed è esattamente quello che Confindustria rischia di scatenare in questi giorni di massima allerta, in cui ci viene chiesto un gesto di responsabilità: fermarsi per evitare danni più estesi che trasformerebbero una crisi temporanea in una catastrofe economica a tempo indeterminato.

Un concetto fin troppo semplice e matematicamente indiscutibile. Ma, sia per il pensiero che per la matematica, è necessario attivare l’intelletto.

È evidente che il principio di “autodeterminazione” richiesto non poggi su solide basi. La cronaca delle ultime ore ci riporta di migliaia di Persone che nonostante i divieti hanno affollato per il secondo weekend consecutivo i treni notturni per raggiungere il Sud o altrettante in transito per le città con fogli di autocertificazione in tasca per “motivi urgenti di lavoro”. Ma questa urgenza chi la determina?

“Se non produciamo più, i clienti cambiano fornitore (e saremo costretti a licenziare)”

Questa è la scusa più meschina con cui si sta attuando il ricatto morale nei confronti dei propri dipendenti, dell’opinione comune, dello Stato e dei sindacati. Facendosi beffe di un sistema sanitario vicino al collasso, con appelli continui di medici e infermieri da ogni parte d’Italia che si affidano al senso di responsabilità (e non all’autodeterminazione), ancora una volta l’associazione degli imprenditori asfalta come un carrarmato tutto quello che è lontano dai suoi miseri interessi: nessuno degli operatori ospedalieri che stanno rischiando la vita in soccorso di altri – e che vediamo sfiniti appoggiarsi alle pareti dei corridoi, fotografarsi le facce bruciate dalle mascherine o addormentarsi sulle apparecchiature – nessuno di questi, evidentemente rappresenta un valore di alcuna utilità per il sistema confindustriale.

Chi decide che il fatturato di un imprenditore sia più “urgente” di quello di un altro? Tolti coloro che producono o lavorano generi di prima necessità (alimentari, farmaci, apparecchiature ospedaliere necessarie per il sostegno alla gestione della crisi), chi ha deciso che non si possa posticipare una commessa di parafanghi, macchinari pesanti, viti e bulloni, auto, sonde, lavatrici, pentole a pressione, materassi o satelliti?

Lo può decidere solo la propria onestà intellettuale o la coscienza di padri, madri, mariti, mogli, figli, nipoti e la risposta deve essere una sola: rinunciare agli interessi dei singoli e collaborare per la salute di tutti.

In una crisi di portata globale che ha appena colpito l’Asia, sta aggredendo l’Europa e fra 3 giorni devasterà l’America, il Paese col sistema sanitario meno sostenibile del mondo, credo che non ci sia una sola commessa che richieda un’urgenza non posticipabile. Non esiste un solo Paese in cui sia necessario esportare, non un solo cliente che non sia coinvolto, non un solo fornitore da stritolare. E dunque ci si ferma tutti.

La presunzione della logica del controllo: “Le nostre fabbriche sono sicure”

Uno dei motivi per cui questo periodo non sarà di insegnamento ad alcune aziende è confermato dalla presunzione con la quale si ritiene di essere esenti da virus avallando la presenza in azienda grazie “all’uso di dispositivi di sicurezza (mascherine) e nel rispetto delle regole sanitarie indicate dal Governo”. Senza comprendere che la cultura del comando e controllo, con cui molti di questi imprenditori ancora gestiscono le loro aziende, questa volta è totalmente inefficace perché c’è un agente che sfugge sia al loro comando che al loro controllo e non possono garantire a nessuno che i loro operai nel tragitto da casa ad ufficio o viceversa incontrino l’agente e ne rimangano contaminati.

E allora si, che dovranno chiudere per settimane se non per mesi.

La spregiudicatezza con cui Confindustria Lombardia e il suo Presidente Bonometti (sul cui curriculum pesano ben altre vicende) stanno affrontando questa crisi va ben oltre l’egoismo e gli interessi di una categoria. Ed è proprio a quella categoria – gli imprenditori lombardi concordi al delirio di onnipotenza della loro Associazione – che andrebbe chiesto fino a che punto si possa spingere l’acceleratore, incuranti delle regole.

Per la presunzione tipica di una meschinità prima umana e poi culturale di un modello lavorativo che vorrebbe continuamente fare scuola al resto d’Italia, c’è chi si permette di chiedere una deroga alle regole scritte per la tutela della salute di tutti, compresi quegli operai di cui essi stessi conoscono i nomi e i cognomi, i nomi dei figli e delle mogli e che in tempi di pace alcuni di loro hanno definito sui siti aziendali come “una grande famiglia”.

E’ auspicabile che questa crisi rinnovi tutti quei valori umani necessari che certi modelli imprenditoriali e una subcultura del lavoro ci hanno fatto perdere nel tempo. E’ auspicabile che la parola “cambiamento” acquisti un suono diverso.

E che siano in tanti ad abbandonare il tetto (e le tessere) di una famiglia del genere.

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