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Il Manager della Felicità è un’ ammissione di fallimento

Le prime tracce del Manager della Felicità sono state rinvenute all’incirca intorno all’inizio del secondo millennio (avrebbe detto Piero Angela).

Allora lavoravo per la specializzazione alberghiera di Adecco e ricordo perfettamente quando una delle mie colleghe mi portò questo ritaglio di giornale che sono riuscito a recuperare nelle pieghe della rete.

Era H3G, azienda di telecomunicazioni neo nata per competere contro i colossi TIM e Vodafone, che con questa boutade cercava di attirare un pò di attenzione e strappare qualche dipendente alle aziende competitor. Una modesta pratica di employer branding che naturalmente si risolse in un nulla di fatto.

Poichè di nulla si trattava.

In tempi più recenti, la figura è riemersa, sull’onda lunga del welfare aziendale di cui tanto si parla e poco si pratica, della retorica delle Persone al Centro che per un incomprensibile fenomeno centrifugo si ritrovano puntualmente ai lati e dell’attenzione ai collaboratori che ha più o meno lo stesso sapore delle centinaia di borracce di acciaio sostitutive delle bottigliette di plastica comparse sui profili linkedin aziendali di gruppi bancari (ma non solo) che mentre “bevevano green” annunciavano licenziamenti nell’ordine di qualche decina di migliaia di dipendenti.

Recruiter sconosciuti al mercato, ma sicuramente attivissimi sui social e nei Talent televisivi, hanno cavalcato quell’onda; surfisti maldestri nell’oceano della fuffa in cui nuotano certi pesci boccaloni che hanno immediatamente alimentato un mercato sommerso di corsi di formazione creati ad hoc, la cui ricaduta in termini occupazionali è zero.

Zero virgola zero. E questo a seguire è uno screenshot di un anno e mezzo fa. Non oso verificare quale sia stata la proliferazione di queste iniziative.

Ma per un momento facciamo finta di prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di un “manager” della felicità

Il suo ruolo, in pratica, in cosa consisterebbe?

Sarebbe davvero il riferimento per la felicità dei dipendenti? La spalla su cui piangere? Il punching ball su cui sfogarsi? L’analista di dati di soddisfazione o insoddisfazione del personale? La cassetta della posta del cuore? Il dispenser di frutta e verdura biologica da distribuire sulle scrivanie?

Laureato a Disneyland a pieni voti con una tesi sugli effetti benefici dello zucchero filato.

O peggio, è il “manager” della felicità la messa a terra in pratica di un benessere solo teorico che ogni manager di ogni reparto dovrebbe invece riuscire a infondere quotidianamente nelle proprie Persone.

Accanto agli obbiettivi, dare un significato. Accanto a un richiamo offrire una soluzione. Accanto a una carenza proporre una formazione.

Il problema vero è nello “scopo”, nel significato. Ed è così da 60 anni:

Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento. Tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, che non giovi a un nobile SCOPO.

Adriano Olivetti

Ma non esiste già una figura all’interno delle aziende che ha il compito di definire, comunicare e coinvolgere nello scopo? (La Reason Why)

Non dovrebbe essere il Direttore del Personale il profilo di riferimento per generare e fare osservare una cultura condivisa di benessere in azienda? Che poi la si chiami fidelizzazione, senso di appartenenza, soddisfazione. coerenza valoriale, coinvolgimento (o engagement per chi lavorando in una multinazionale si ritenesse escluso dalla conversazione), ma i cui strumenti di valutazione vanno ben oltre la superficie di un ambiente smart in cui le Persone sono tristi e demotivate e “parte di un team” si, ma di solisti.

Dunque, la tanto sbandierata caccia al Manager della Felicità, a mio avviso, non è nient’altro che una resa. La prova provata di un sistema manageriale in cui ancora vige il comando e controllo e contrariamente allo sbandieramento pubblico di teambuilding in barca a vela e palestre aziendali non allena le proprie Persone ad essere felici.

La resa di molti uffici del personale troppo impegnati a seguire le relazioni industriali e poco quelle personali. Ad apparire nelle classifiche sui giornali di management pilotate dall’Associazione di Categoria di riferimento e a ritirare premi “Top” e “Great Place” mentre i propri collaboratori scappano dalle finestre.

E’ l’ammissione del fallimento delle aziende nel non sapere attrarre / trattenere. E prima di impegnarsi a comunicare la ricerca di un manager della felicità, farei una seria riflessione su cosa si sta realmente comunicando.

Il Manager della Felicità non è il tappeto sotto cui nascondere la vostra polvere.

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