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Smartworking: la proposta di Deutsche Bank è una …

Dunque, secondo lo stratega di Deutsche Bank, Luke Templeman, coloro che al termine della pandemia continueranno a lavorare da casa è giusto che vengano tassati a favore di coloro che invece sono costretti ad andare in ufficio o delle categorie più disagiate.

Per chi non sapesse di cosa sto parlando, Business Insider lo spiega molto bene.

Qui invece il testo originale, in cui, oltre alla tassa per chi lavora da casa, si auspica un ritorno al denaro contante e una ulteriore tassa anche per chi è un assiduo frequentatore del commercio on line. Il digital divide a volte è una strategia precisa.

Partiamo da qui: “costretti ad andare in ufficio”. Da chi?

In tutti questi mesi abbiamo ragionato mille volte in tutti i webinar possibili e immaginabili, dirette social, post e articoli di stampa più o meno specializzata, sull’accelerazione che il Covid ha dato a certi stanchi riflessi delle aziende a cogliere il senso del cambiamento e di un certo modo di lavorare – evidentemente – retrogrado.

Fra questi processi di accelerazione, quello dello smartworking che, vuoi la pandemia vs. la convinzione dei “capi” da sempre ritenuti il vero ostacolo alla gestione a distanza, è stato sdoganato ormai a livello internazionale al punto tale da convincere aziende come Novartis, Siemens, Twitter in primis a smantellare gli HeadQuarter a favore di un “lavora da dove vuoi” sempre più diffuso. Almeno per tutto il 2021.

Fra i libri più completi sul tema, quello di Marco Bentivogli, un compendio vero e proprio che riassume cultura, contrattualistica e prospettive dello smartworking in Italia. In uno dei capitoli è riportato l’articolo pubblicato a suo tempo su Repubblica, in cui si invitavano i direttori del personale ad abbandonare il ruolo di cani da pastore per spostare l’attenzione sui valori di fiducia e obiettivo.

In totale sintonia con quanto dichiarato dal sindaco Sala e dal prof. Ichino all’uscita ufficiale dal primo lockdown, le dichiarazioni di Templeman sembrano fortemente ancorate ad una visione ormai non più sostenibile di industria, in cui si punisce l’innovazione e si continua a premiare il comando e controllo dei vari cane da pastore.

E in quanto a pastori – permettetemi la digressione – la Germania vanta una discreta tradizione.

La proposta di Templeman è materia morta

Per parafrasare Fantozzi, naturalmente. Ma non a caso, visto che ci sono ancora molti Templeman in giro che ritengono virtuoso alimentare un’economia di formicai impazziti che affollano tutti i giorni strade, treni e metropolitane per raggiungere alveari produttivi solo dal punto di vista della generazione di riunioni e processi che sono da anni al centro dei corsi di formazione sulla leadership quando si deve citare un esempio di obsolescenza delle organizzazioni e abuso del tempo e della qualità del lavoro. Sono probabilmente gli stessi che riunirebbero tutti i dipendenti nel cineforum aziendali per la visione della corazzata Potëmkin.

Non possiamo sciupare l’insegnamento di questo tempo

Quest’anno resterà un ricordo devastante nella memoria delle generazioni che lo hanno attraversato, ma non possiamo perderne l’unico aspetto positivo: la messa in discussione di un sistema che chiamavamo “organizzazioni” e tutto era, tranne che organizzato.

Abbiamo celebrato quel sistema ridendo del Milanese Imbruttito, quasi a prendere le distanze da qualcosa che rappresentava ognuno di noi, che lo si voglia ammettere o no. Quel linguaggio da Englishitaliani, ricco di “purpose”, “conferencecall”, “feedback” e poi incapaci di ordinare una bottiglia di acqua frizzante al self service dell’aeroporto in attesa del volo (sono certo che 99 su 100 di quei manager ancora chiedono “water with gas”. Vi ho sentiti mille volte!), la frenesia del badge, il welfare aziendale in cui palestre, asili e corsi d’inglese sono presentati come un “benefit”, la macchinetta del caffè come mezzo di relazione e i colleghi come unici depositari di amicizie di convenienza.

Abbiamo sostanzialmente sostituito la vita vera in cui è un sacrosanto diritto lavorare per un obiettivo e non per orario, in cui si patteggia un’entrata mezz’ora dopo o un’uscita mezz’ora prima per portare o riprendere i figli a scuola, in cui scelgono per te la palestra in modo che la tua vita si svolga 12 ore al giorno fra le stesse quattro mura, a contatto con le stesse persone, in cui il dialogo rimane circoscritto e focalizzato ai soliti quattro argomenti: il budget, il collega stronzo o la collega gnocca, il progettoX, mi avevano promesso e non mi hanno dato.

Chi propaganda lo smartworking come alienazione relazionale, e auspica un ritorno in azienda come luogo di aggregazione, probabilmente non ha una “vita fuori”.

Reputazione al ribasso

Il crollo reputazionale subito da Deutsche Bank grazie a questa straordinaria proposta non è stato indifferente, a livello globale.

Solo su Linkedin sono tantissimi i post senza mezzi termini; tanti i media che hanno commentato anche in considerazione di una situazione gravissima con cui la Germania ha dovuto fare i conti durante la pandemia.

Ma anche da parte di C-Level di grandi aziende e organizzazioni a livello internazionale.

In definitiva, la proposta di Templeman è inaccettabile dal punto di vista etico prima, e di sostenibilità poi.

Non avranno scuse quelle aziende che sposeranno un ritorno al passato e già in queste settimane dalla voce dei loro amministratori si auspica una “nuova normalità” che è fin troppo simile alle “vecchie abitudini”.

I miei candidati – e so per certo anche moltissimi giovani alla prima esperienza lavorativa – hanno imparato subito a chiedere in fase di colloquio se l’azienda “prevede lo smartworking”. Una domanda che fino a 9 mesi fa per qualche responsabile di selezione e per i suoi capi suonava come un do diesis in un rap.

Ci sono aziende che preferiscono continuare ad eseguire le solite solfe credendo ancora di avere fra le mani lo spartito di trionfanti sinfonie.

Ma nel frattempo abbiamo imparato tutti a leggere la musica.

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